Senza vocazione
Postfazione di MAGDA INDIVERI
SE
OGNI GIORNO ENTRA IN CLASSE UN PROFESSORE
Hai appena terminato di
leggere Senza vocazione di Dano
Turrini: domande e osservazioni si affollano.
A chi si rivolge il
professore che, secondo il metodo
calviniano, prende la parola – professa - nel libro, rivolgendosi con il tu a
un altro se stesso/ lettore? E
conseguentemente, a quale genere ascrivere questo testo?
Si rivolge ai suoi ex
studenti, tra istituti modenesi e licei bolognesi come il Righi o il Minghetti,
riportando alla luce (ah, il montaliano secchio…) ricordi di scuola, e quindi
si tratta di un memoir o di una
attualissima autofiction?
Oppure si rivolge agli
insegnanti che l’hanno sostituito, entrando in ruolo in questi anni, e quindi è
un instant book legato all’emergenza
scuola, un manuale di istruzioni che attraverso scene ed esempi (fotogrammi e
schizzi) trasmette indicazioni preziose su come gestire una classe?
Infine, è forse rivolto
al futuro, alla scuola che verrà, fatta di studenti e di professori del tutto
diversi da quelli conosciuti, e quindi è un testo fantascientifico, alla Asimov,
quando Tommy e Margie trovano in soffitta un così strano aggeggio, un libro, e
si chiedono “chissà come si divertivano”?
Non ho risposta, e proprio questa multiformità, quella che oggi è l’acclamata forma ibrida, rappresenta l’elemento originale. Del resto l’autore è stato molte cose, ricercatore, militante, giornalista, supervisore e tutor a futuri nuovi insegnanti, professore di lettere, storia e filosofia attentissimo ai suoi studenti, accompagnatore di gite, confidente, ma sempre sub specie del finto svagato, di quello che “professa” senza vocazione.
Quante figure diverse popolano l’immaginario dei docenti, quante “forme” pirandelliane indossiamo nel momento in cui passiamo la soglia di un’aula! Il professore in questione ha scelto questa forma, convinto, lo dice perentorio cominciando il suo testo, che la scuola non salvi. Senza vocazione e senza salvezza, dunque, il che mette il docente nelle condizioni del bambino che vuota il mare col secchiello.
Preferisco per Dano Turrini questa immagine all’altra, sicuramente avvicinabile, di Sisifo con la sua pietra rotolante. L’elemento del gioco, dello sfottò, del non prendersi sul serio è molto forte nel suo approccio all’insegnamento ed ha forse prodotto uno spostamento del peso tale, da avvincere gli studenti. Assumendo che insegnare sia un gioco di distanze e di bilanciamenti, a me pare che dietro il suo understatement ci sia sempre stato uno sguardo vigile e pieno, un impegno non gridato ma consapevole, alla Rodari, che si avvale dell’ironia, dell’abbassamento dei toni, forse lo stare in classe non due passi avanti ma due dietro, come la leggendaria creatura che Borges chiama “hide behind”, perché è così che si vede l’invisibile.
Nulla da insegnare, tutto da imparare. Imparare senza insegnare. Passare passioni, ma anche regole. Il testo ci parla della complessità e della criticità del lavoro di insegnante (l’effetto Pamela, diciamo così) ma lo fa ragionando con un tu che può essere l’alter ego di se stesso e di ognuno di noi, quello che riflette su quanto fa: riducendo ogni retorica e distruggendo ogni palco, ma andando al cuore della questione. Lo fa senza timore di mostrare un insegnante debole, in minoranza, illuso, clown per disperazione, rigoroso nel disordine, in grado di provare il "formicolio della sconfitta". In questa scrittura così sorvegliata il fallimento non viene mai nascosto, ed è forse quel che il lettore interessato alla scuola deve capire più di tutto. Insegnare ha il beckettiano primato – si fallisce sempre, più o meno bene.
Dano Turrini ha sempre avuto una visione multiculturale; grande appassionato ed esperto di cinema, lo ha divulgato in ogni modo possibile assieme all’amica di una vita Giovanna Gliozzi. Si sente, in questo saggio, il sapiente uso della tecnica del montaggio applicata alla scrittura.
Sembrano gli appunti raccolti dallo psicoanalista, sembrano le relazioni redatte su percorsi di attenzione, sembra l’operetta leopardiana che nel pessimismo generale sparge un sorriso sulle cose, sembra il distacco del referto, e invece ne esce una pur non vocata passione che ancora vaga come fantasma tra le aule frequentate. È soprattutto uno svelamento. ma anche una messa in guardia ed un atto di fiducia, e leggendo queste pagine troviamo un po' di istruzioni per sopravvivere, un po' di metodo, qualche giudizio sull'istituzione e anche un po' di contenuti civili, letterari e filosofici: in pratica la declinazione della lista di Barthes a conclusione della sua Lezione inaugurale del 1977: "…nessun potere, un po’ di sapere, un po’ di saggezza, e quanto più sapore possibile."
Uno svelamento, dicevo, per chi vive o ha vissuto la scuola – una platea non piccola. Ho visto recentemente il film “Rifkin’s festival” di Woody Allen. Il protagonista insegna senza soddisfazione e “vuole” piuttosto scrivere un romanzo. Questo dichiara a quanti incontra a uno scintillante festival del cinema, ma una serie di “precipitati” lo portano, a fine film, su una panchina, a dirsi che più che "a book writer ", uno scrittore, ciò che ama essere davvero è "a book reader", un lettore. E quindi "a teacher ", un insegnante. Dice proprio così, e a me ha commosso parecchio.
Forse Dano Turrini alla giusta distanza ha capito che siamo testi, e che era ora di mettere letteralmente in riga le sue esperienze, lasciando a quel tu/ lettore la prosecuzione del percorso.
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Dano Turrini, Senza vocazione. Schizzi di scuola.
Pendragon
Pp. 206
Uscita: 29-09-2021
15,00 euro
ISBN: 978-88-3364-378-6
Il libro fa pensare, ridere, a tratti commuovere. Un brano secondo me molto ben riuscito (visto che siamo anche in periodo di settecentenario dantesco) è il seguente (pp. 49-51):
RispondiElimina“Torniamo a Dante. Hai capito che l’ignavia non colpisce
tanto la sensibilità delle tue studentesse, varrebbe la pena
prendere posizione se ci fosse qualcosa che lo merita, e qui
ci starebbe una tirata nostalgica sui tuoi anni dell’adolescenza,
quando invece prendere posizione – quelle prese
di posizione superbe che parevano atti eroici e sembravano
statue del realismo socialista – era obbligatorio perché
c’era la guerra fredda anche a scuola e gli ignavi danteschi
erano definiti con il massimo di stigma sociale “piccolo-
borghesi”, sicché arriviamo in riva all’Acheronte e pensi
che possa partire il tuo attacco finale. Per oggi.
«Per entrare all’inferno bisogna attraversare questo fiume
con una barca. I peccatori si accalcano per salire sulla
barca dato che, sapete, è un po’ strano forse da capire, hanno
fretta di andare a espiare i loro peccati con le peggiori
sofferenze. Ed ecco che appare il primo demonio».
Stai controllando la quantità e la qualità dell’ascolto del
tuo uditorio e ti sembra che vada bene, vedi volti concentrati,
bocche socchiuse, occhi puntati. Vai.
«Il nostro demonio si chiama Caronte ed è il barcaiolo.
Ora dovete immaginarlo perché è una figura veramente
50 51
impressionante. A qualcuno piacciono i film dell’orrore?
Non so, tipo L’esorcista, no, non eravate nemmeno nate,
quasi, lasciamo stare. Qualche film di Dario Argento?». Se
nessuno alza la mano non ti resta che andare avanti, sennò
perdi la tensione e addio coinvolgimento emotivo nelle trame
dantesche. «Ok» dici, «allora c’è Caronte, Caròn dimonio,
come dice Dante, c’è Caronte che carica i peccatori per
trasportarli all’inferno vero e proprio, perché qui siamo già
all’inferno, ma, diciamo così, nell’anticamera. Adesso dovete
fare lo sforzo di figurarvelo, questo demonio: intanto
è un vecchio bianco per antico pelo, cioè è un vecchio con
i capelli bianchi, ha le lanose gote, cioè la barba lunga, ma
soprattutto ha gli occhi di bragia, oppure anche di fiamme
rote, cioè ha dei cerchi di fuoco intorno agli occhi».
È a questo punto che da bravo istrione inserisci la parte
corporea della recita: porti le mani davanti agli occhi, disponi
a cerchio pollice e indice e muovi le dita, le apri e le
chiudi a simulare vive fiammelle, e intanto pieghi la schiena
come un vecchio che arranca e minaccia. Ed è a questo
punto che Pamela alza la mano.
Vorresti conoscere tutte le parole del vocabolario per
usare quella che meglio denota la tua sorpresa, subito seguita
da un’attesa incredula. Ce l’hai fatta, qualcosa si è
mosso.
«Dimmi, Pamela, che cosa pensi?».
«Prof… ho tanta fame».
«Tesoro, che cosa posso farci» rispondi senza pensare,
ma subito senti che le tue pile si sono di colpo scaricate.
Non sei nemmeno sicuro di avere capito bene. Ti manca
quasi la parola e così dici: «Ok, allora adesso leggiamo insieme
queste terzine e poi facciamo un po’ di parafrasi».
Se vogliamo venire alle conclusioni occorre dire che
questo apologo può essere letto in due modi del tutto contrapposti,
perché se da una parte racconta di una sconfitta
più che grave, umiliante, in considerazione anche dell’impegno
inutilmente profuso e in fin dei conti della presunzione
punita, dall’altra parte racconta pur sempre di un
successo comunicativo modesto ma lungamente ricercato,
che con un po’ di enfasi potremmo chiamare una vittoria
della parola contro l’afasia. Dovessi scegliere un esempio
della complessità e della criticità del lavoro di insegnante,
sceglieresti Pamela.”
Vedi anche la bella recensione di CRISTIANA DE SANTIS
RispondiEliminahttps://valenziale.blogspot.com/2022/03/senza-vocazione-sul-libro-di-dano.html